Riprendiamoci la salute

Molti sono stati i documenti, piattaforme, appelli che sono stati scritti in questi ultimi 3 mesi di emergenza sulla salute, sul suo stato cronico “di malattia”, sui suoi indispensabili “bisogni di cura e trasformazione”. Per questo proponiamo a tutti i movimenti antagonisti (dai coordinamenti, ai sindacati di base, ai comitati di quartiere, agli spazi sociali, alle associazioni di utenti e parenti…) di fare uno sforzo collettivo per costruire un’unica piattaforma di lotta sulla salute che, oltre ad un confronto/elaborazioni di idee, diventi strumento di mobilitazione ed agiti concreti in tutte le realtà sanitarie e sociali dove siamo presenti. NOI CI IMPEGNAMO DA SUBITO PER ORGANIZZARE INSIEME UN PRIMO INCONTRO NAZIONALE e questo è il nostro contributo alla discussione.

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RIPRENDIAMOCI LA SALUTE
Appello del Cobas Sanità, Università e Ricerca

Questo appello è rivolto non solo ai lavoratori della sanità pubblica e privata, agli operatori sanitari che si occupano di cura, riabilitazione e assistenza, ma a tutte quelle realtà collettive e individuali che ritengono imprescindibile, ancor più in questo momento storico, la necessità di mobilitarsi per conquistare un modello di sistema di salute pubblico, universale e gratuito. Crediamo sia giusto parlare di conquista, e non di semplice rivendicazione, perché lo scempio, che in questi ultimi decenni è stato realizzato ai danni della salute dei cittadini e dei lavoratori, ha nei fatti permesso la lottizzazione di un diritto primario e inalienabile a vantaggio del profitto. Una spartizione che ha lasciato spazi praticamente inesistenti non solo alla cura in senso stretto, ma soprattutto ai “determinanti” di salute che ne costituiscono la base inderogabile.
L’epidemia di COVID 19 ha impattato in modo drammatico sulle strutture del Servizio Sanitario Nazionale, mettendo a nudo il modello fallimentare con cui negli anni è stato gestito, depauperando il pubblico per ingrassare il privato. Un modello che ha distrutto le reti territoriali dell’assistenza e ha negato a milioni di persone i diritti fondamentali al lavoro, all’abitare e all’aria stessa che respiriamo. E, non per ultimo, il diritto ad essere liberi di scegliere. Tutto questo in nome del profitto.
Un modello fortemente dominato dal protagonismo delle Regioni, dopo la modifica nel 2001 del Titolo V della Costituzione che ha portato alla balcanizzazione del Servizio Sanitario Nazionale, con 21 Piani Sanitari Regionali, che hanno fortemente ridotto le competenze centrali dello Stato, chiamato solo a un potere di indirizzo. 21 piani sanitari regionali con regole e costi diversi, che hanno tra l’altro comportato l’abbandono dell’economia di scala e il proliferare di centinaia di appalti e centrali d’acquisto regionali, asserviti a clientelismi politici e finanziari (vedi mafia capitale, ma non solo). In una situazione di “ordinario profitto” è stata tralasciata ogni forma di intervento preventivo sulla salute a partire dall’assenza di piani pandemici regionali che, seppur previsti, sono disattesi da oltre 10 anni (mancanza questa che ha determinato la totale impreparazione alla pandemia in termini di mezzi e di personale).
In questo contesto legislativo che, fino a qualche mese prima della pandemia,vedeva alcune regioni del Nord (Lombardia, Veneto e Emilia Romagna) protagoniste della campagna per conseguire una maggiore autonomia dallo Stato in settori strategici come la sanità, la scuola e i trasporti, si stava concretizzando una lenta quanto inesorabile mutazione genetica del Servizio Sanitario Nazionale con l’introduzione di due pilastri fondamentali: il Sistema assicurativo e la Sanità integrativa come articolazione contrattuale nel mondo del lavoro tramite il welfare aziendale. Due elementi strutturali dunque che avevano lo scopo di sancire la crisi e il superamento del modello universalistico del nostro Servizio Sanitario e la sua nuova collocazione classista in un sistema in cui può curarsi solo chi ha il reddito sufficiente per farlo.
I fondi regionali sulla sanità sono diventati una fonte di lucro molto appetibile e terreno di cultura per l’organizzazione di un sistema incontrollabile di potere politico assoluto, che ha potuto, nel silenzio più totale, attuare un gigantesco trasferimento finanziario di risorse dal pubblico alle più potenti lobby sanitarie private.
Dopo la riforma costituzionale del 2001, le Regioni, invece di occuparsi dei bisogni sanitari dei vari territori, si sono rese responsabili di una corsa sfrenata all’aumento del profitto da parte dei privati a scapito della salute dei cittadini, accompagnata dallo sfruttamento di migliaia di lavoratori. Una gara per la distruzione dell’assistenza pubblica, considerata un pessimo affare: aveva vinto il modello lombardo e sappiamo come è andata a finire.
Con l’aziendalizzazione e l’accreditamento, che metteva sullo stesso piano pubblico e privato, è stata definitivamente superata la logica di una sanità privata integrativa a quella pubblica. Gli ospedali, diventati aziende, vengono progressivamente divisi dai servizi territoriali, e assumono le stesse modalità di finanziamento e di gestione degli ospedali privati, che però possono contare su capitali più ingenti. E per finanziarsi sono costretti ad occuparsi prevalentemente delle patologie acute. Ai privati accreditati, spesso gestiti dai finanziatori occulti della politica, è data la ricompensa di occuparsi quasi esclusivamente di patologie acute e quindi remunerative, spesso senza controllo reale sulla qualità e sull’appropriatezza delle prestazioni erogate; la gestione dell’urgenza, molto costosa e poco redditizia, è pressoché totalmente lasciata a carico del pubblico. Le “malattie dei poveri”, come quelle infettive, vengono relegate a problema del terzo mondo.
La politica del taglio dei rami secchi ha comportato la chiusura di centinaia di reparti specialistici e di tagli ai posti letto di terapia intensiva.
In questa logica di spartizione anche una parte consistente dell’assistenza socio- sanitaria doveva passare al privato. La chiusura dei presidi territoriali (reparti di lungo degenza, punti nascita, consultori, SERT, piccoli ospedali) ha anticipato il grande affare della cronicità, della riabilitazione e cura degli anziani, date in gestione ai privati (nel 2001 in Lombardia le RSA erano 518 ed erano pubbliche il 59,1%; nel 2020 sono 717 e l’offerta pubblica è scesa al 7.5%). Infine l’ultimo tassello, già oggi presente nel modello-pilota Lombardia: l’abolizione dei medici di base a favore dei gestori della salute, cartelli di privati volti a indirizzare e gestire le prestazioni e i bisogni di salute dei cittadini.
Questa epidemia ha ampiamente dimostrato che non si può vivere senza un sistema sanitario in grado di curare tutti senza distinzioni. Se in Italia avessero vinto le spinte al suo definitivo superamento, le cifre di questa epidemia sarebbero state molto più elevate, nonostante il già impressionante numero dei morti ufficiali (ad oggi circa 28.000), ampiamente sottostimato perché riferito solo a pazienti con diagnosi accertata. Un semplice paragone con il numero dei decessi in più rispetto alla media degli ultimi 4 anni evidenzia una forbice del +36%. Questo significa che, anche nella famosa fase due, continueranno ad esserci persone contagiate al di fuori di qualsiasi controllo epidemiologico.

Mentre continua imperterrita la pandemia dei dati, la realtà è che dai tempi della legge 833/78, che individuava le competenze epidemiologiche del Servizio Sanitario in vari campi, il quadro epidemiologico, come denunciato dagli epidemiologi italiani, è caratterizzato da una grande disomogeneità e dal mancato coordinamento dei ruoli tra agenzie centrali e regionali, l’esperienza delle quali è stata spesso compromessa dall’ambiguità tra funzione tecnica e funzione di supporto alle scelte della politica (Epidemiol Prev 2016;40 (2:86-89)).
E come avrebbe potuto essere altrimenti? I dati raccolti e diffusi dai vari Osservatori Regionali sono spesso stati funzionali alle scelte politiche delle stesse in tema di salute. E quando non potevano essere pilotati, sono stati nascosti o semplicemente non pubblicati. Gli stessi resoconti giornalieri, nazionali e regionali, hanno spesso messo in luce il non allineamento dei numeri della Protezione Civile con quelli forniti dalle Regioni. Senza l’omissione di parte dei dati regionali, la Lombardia avrebbe dovuto dimostrare la giustezza di scelte scellerate che hanno portato l’aumento esponenziale dei decessi e dei casi di covid 19 in quella Regione. Dallo scoppio dell’epidemia lo Stato ha supplito allo strutturale deficit informativo con le varie Commissioni di esperti, ora pretende di sopperire all’inadeguatezza epidemiologica con un App! È chiaro che a partire dalla fase di prevenzione, ma anche in quella del contagio dal virus, è mancato un Osservatorio epidemiologico nazionale in grado di elaborare una mappatura del rischio.
La nostra valutazione è che non si possa prescindere da una riorganizzazione complessiva del SSN voltando pagina con quella che fino ad oggi è stata la logica di mercificazione della salute che lo ha caratterizzato. A partire dal fatto che devono essere previsti organi di controllo e di partecipazione alle decisioni di tutti i cittadini. Gli unici in grado di monitorare, al netto di interessi economici, politici e finanziari, le fragilità e le richieste di salute. La necessaria riorganizzazione del sistema salute deve garantire momenti di partecipazione dei cittadini a tutti i livelli, specie in sede locale, con la dovuta trasparenza e informazione. È indispensabile il loro controllo su un bene comune quale è la salute pubblica. Vanno favorite autonome iniziative, anche con inchieste e somministrazioni di questionari tra la popolazione di riferimento per conoscere i bisogni di salute e la qualità percepita dalle prestazioni erogate.
A decidere sulla nostra salute non possono essere i vertici finanziari e politici delle Regioni o, a cascata, i Direttori Generali delle ASL e delle Aziende sanitarie, nominati con il sistema dello spoil system ad ogni elezione e che gestiscono per conto dei vertici regionali appalti milionari.
Il territorio come punto di partenza per il diritto alla salute. Crediamo che il modello “ospedalecentrico” abbia rivelato, ancor più in questa fase di epidemia, la sua totale inadeguatezza nel dare risposte ai bisogni di cura. È necessario ricreare e sostenere una rete territoriale pubblica di assistenza, con un numero adeguato di presidi, sulla base delle esigenze territoriali, che svolga una funzione di screening e prevenzione. Il territorio va inteso come luogo in cui devono essere affrontate le diversità e le fragilità, spesso causa primaria di ogni forma di malattia. L’incremento del numero dei medici di base in questa fase (nei prossimi anni ne andranno in pensione circa 40.000) non è più rinviabile, se vogliamo impedire che la salute pubblica venga gestita da grossi potentati finanziari e da gruppi di assicurazioni. I Medici di base non devono essere liberi professionisti, pagati pro- capite, ma dipendenti pubblici a tutti gli effetti.
Vanno riaperti e potenziati i consultori familiari e materno infantili, i Dipartimenti di Salute Mentale, i Centri diurni, le case-famiglia per adulti e minori con problematiche neurologiche e psichiatriche, per anziani, per tossicodipendenti. Per le donne e le/i LGBPT*QIA+ (lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer, intersessuali e asessuati) che subiscono violenze fisiche e psicologiche, è necessaria la creazione e il potenziamento di sportelli di ascolto con la presenza di psicologi, avvocati, assistenti sociali, neuropsichiatri infantili, finanziati dal pubblico e gestite/autogestite da femministe e donne fuoriuscite dalla violenza. Il dramma della violenza sulle donne e la loro salute non possono essere oggetto di concessione di appalti al massimo ribasso a cooperative religiose e di destra che impongono alla donna la preservazione di famiglie tossiche che spesso sono teatro di femminicidi e infanticidi (in questi mesi sono aumentate del 75% le richieste di aiuto ai pochi centri di ascolto rimasti, e 5 donne sono state ammazzate solo a marzo).
Gli Ospedali. Bisogna che gli ospedali ritornino ad essere tali: dei luoghi di cura per tutti. L’aziendalizzazione iniziata negli anni ’90 è stata la causa prima della mercificazione della salute nel nostro paese. Bisogna ripartire da qui. Reinventare un ospedale come bene comune, un luogo dove il numero dei posti letto non scenda di anno in anno per scelte di bilancio (si è passati dal 5,4 posti-letto/1000 abitanti al 3,2 di oggi), ma dove quantità e tipologia vengano decisi dalle necessità epidemiologiche del territorio. Ospedali non più condizionati dai primari che misurano il loro potere dal numero di letti che gestiscono, ma aperti e recettivi ai bisogni di salute, dove i posti letto possano variare e dare risposte di cura in base alle necessità della popolazione e non delle carriere di chi li gestisce. Ospedali che, supportati e sgravati da una medicina territoriale che funziona, possano essere in grado di fornire percorsi assistenziali integrati e multidisciplinari.

Le strutture socioassistenziali e l’assistenza domiciliare. Bastano pochi numeri legati all’emergenza Covid 19 per comprendere come il buco nero di questa epidemia siano state le Residenze per anziani, e non solo in Italia. In Lombardia il 50% dei decessi è avvenuto nelle RSA e il 42% degli operatori sanitari di queste è stato contagiato. Anche se i veri numeri non li conosceremo mai, una cosa è certa: una intera generazione è stata decimata dalla privatizzazione di questo settore.
Nel corso degli anni le RSA hanno perso la loro natura socioassistenziale a favore di un’assistenza di tipo alberghiera, meno costosa e più remunerativa. Nel tempo è cambiata anche la popolazione assistita composta ormai prevalentemente da anziani non autosufficienti, che ha trasformato queste strutture in cronicari senza percorsi sociali di riabilitazione. È in questa logica che l’accreditamento di queste strutture prevede 901 min/sett per ospite in cui è ricompresa l’attività di Medici, Infermieri, OSS, ASA, Fisioterapisti, Animatori, Educatori. Assurdo, se si pensa che molti di quegli ospiti provengono da reparti di medicina ospedaliera in cui avevano diritto a 120 min/die di assistenza infermieristica.
In Italia la quasi totalità delle RSA sono in mano a gruppi ecclesiastici o finanziari. In Lombardia società multinazionali come KOS (45% di proprietà CIR/De Benedetti) hanno il controllo della filiera assistenziale e della riabilitazione con un fatturato circa 2,5 miliardi e solo per un 5% degli ospiti la quota variabile viene assunta a carico dei bilanci comunali e il resto è a carico dell’ospite. In Lombardia il budget sociosanitario è di circa 1,5 miliardi, di questi 950 milioni vanno alle RSA (nelle varie tipologie).
Andare in controtendenza alla logica del cronicario significa utilizzare gli operatori, che oggi vivono ritmi massacranti con stipendi da fame per rafforzare l’assistenza domiciliare in modo da consentire agli anziani di continuare a vivere al meglio nella loro abitazione. L’assistenza domiciliare agli anziani è oggi in mano quasi esclusivamente alle cooperative di assistenza e alle badanti, a totale carico delle famiglie e, in presenza di difficoltà economiche, la gestione di un familiare anziano viene quasi sempre presa in carico dalle donne.
È ora che sia la sanità pubblica ad occuparsi gratuitamente di generazioni che per anni hanno contribuito ai bilanci statali. Il fallimento della gestione privata nell’assistenza agli anziani è uno degli insegnamenti che questa epidemia ha drammaticamente fatto emergere, ed è importante che questa venga ricollocata all’interno del sistema pubblico, garantendo il passaggio del personale, senza il quale andrebbero perse competenze specifiche acquisite nel corso degli anni. Dovrà essere la sanità pubblica a garantire una maggiore tutela per i lavoratori e per gli anziani.
La mancata autonomia degli Organi di vigilanza e controllo. È da tempo che si assiste ad un progressivo svuotamento delle funzioni di vigilanza e di controllo all’interno dei Dipartimenti di Prevenzione delle ASL, sia in termini quantitativi, perché il personale collocato in pensione non viene sostituito, se non in minima parte, sia in termini qualitativi perché le tipologie di controllo sono sempre più finalizzate ad un ruolo “consulenziale” dei datori di lavoro. Questo elemento è ancora più marcato quando si tratta di controlli e di vigilanza nelle aziende sanitarie e nelle strutture di assistenza. In questo settore parte del controllo rimane in capo alle stesse strutture che gestiscono l’accreditamento, spesso con regole non espressamente definite e che comunque consentono modalità di assistenza inaccettabili anche quando rispettano i limiti dell’accreditamento stesso.
Non è un caso che, mentre esplodeva l’epidemia all’interno delle RSA per mancanza delle più elementari norme di prevenzione del contagio, gli organi di vigilanza non hanno effettuato i controlli nonostante le disperate proteste dei lavoratori.
Diritti degli operatori sanitari. Anche prima del Coronavirus il diritto al lavoro, ad un lavoro dignitoso e sicuro, non era assolutamente garantito. A partire dagli anni ’90 abbiamo assistito ad un progressivo annientamento del diritto degli operatori sanitari non solo a lottare, ma anche a denunciare. Prima è arrivata la legge sulla regolamentazione dello sciopero nei servizi pubblici essenziali (legge 146/90) che, con i contingenti minimi e la precettazione, ha reso in pratica inutilizzabile questo strumento nelle strutture sanitarie. A seguire, è stato approvato prima il codice disciplinare (Riforma Brunetta-D.L. 150/2009), poi il codice di comportamento dei dipendenti pubblici (Dpr 62/2013) e per ultime le regole in materia disciplinare della riforma Madia (legge 124/2015). Disposizioni immediatamente recepite, con la complicità sindacale, dai CCNL. Durante la pandemia si è passati al livello successivo, decretando lo stato d’emergenza e la limitazione di ogni libertà, a partire da quella di manifestare. In questi anni gli/le operator*della salute che hanno tentato di opporsi alle logiche di mercato nella gestione della sanità pubblica e che hanno lottato per condizioni migliori di lavoro, sono stati denunciat* e duramente repress* con mesi di sospensione dal lavoro. E nella fase post Covid la situazione non potrà che peggiorare.
Solo in sanità sono presenti oltre 50 tipologie differenti di contratto, con un numero sempre decrescente di tutele, in una costante lotta al ribasso. La vita dei lavoratori vale molto poco da sempre, anche prima del Covid, ma ora anche in Sanità sono arrivati i morti, anzi le morti annunciate.
L’epidemia ha scoperchiato il vaso dello sfruttamento legalizzato a partire dalla carenza di protezione e sicurezza per i lavoratori negli ospedali, fino al totale abbandono degli operatori delle RSA, costretti ad affrontare l’epidemia a “mani nude”. I costi della sicurezza sono un lusso che i padroni non vogliono sostenere. E poi ci sono gli invisibili, gli irregolari, il vero motore della vita quotidiana che, annientati dalla segregazione di queste settimane, rimarranno comunque per sempre esclusi da un’eventuale ripresa. Prima invisibili, oggi eliminati di fatto. Soprattutto nel settore delle RSA la quasi totalità del personale infermieristico lavora con partita IVA. Spesso provengono da paesi dell’est Europa e vivono una condizione di precarietà lavorativa. Basti pensare che molti di quelli che si sono contagiati sono stati costretti dalle RSA ad interrompere il rapporto lavorativo, per non doverli considerare infortunati sul lavoro.
Una delle rivendicazioni degli anni ‘70 recitava: lavoro o non lavoro salario garantito. Oggi va aggiunto: lavoro o non lavoro vanno garantiti salario, diritti e sicurezza. Va garantito non solo un reddito base di emergenza, ma un pacchetto di diritti inalienabili per tutti i lavoratori.
Perché i diritti non sono monetizzabili a fronte di nessun rimborso. I premi per gli operatori sanitari impiegati nei reparti covid che molte regioni hanno istituito, uniti ai famosi 100 euro del Decreto cura Italia, equivalgono ad un insulto per la dignità degli operatori sanitari. Soldi in cambio di rischi e morte. Una logica che segue le scelte sindacali degli ultimi decenni: premi in cambio di perdita dei diritti.

Ora nella fase due si susseguono le più svariate ipotesi per “tornare alla normalità”. Una cosa è certa: la Confindustria non è disposta a fare da spettatrice, anzi dall’inizio della pandemia è stata un soggetto attivo nelle scellerate decisioni prese di non accettare zone rosse nel Bergamasco. Carlo Bonomi, neoeletto Presidente di Confindustria, ha subito chiarito che bisogna ripartire, riaprire fabbriche e attività a qualunque costo: rimettere il profitto al centro del sistema. Ora servirebbe almeno un sistema adeguato di controlli che garantisca la sicurezza dei lavoratori, costretti a tornare a produrre, ma lo stato dei Dipartimenti di Prevenzione già sotto organico prima dell’emergenza, non fa ben sperare. Tra gennaio e novembre 2019 in Italia ci sono stati oltre 1000 morti sul lavoro dovuti alla mancanza di misure di sicurezza adeguate nei posti di lavoro. Una responsabilità tutta interna ad un modo di produzione che non vuole assoggettarsi al rispetto delle misure di sicurezza, principalmente per non sopportarne i costi. Per un problema di profitto dunque.
Per non parlare di quelli che il lavoro lo hanno definitivamente perso, i precari, i lavoratori a nero, gli stagionali, i migranti. Un esercito che in questi anni ha fatto da motore all’economia nazionale, sfruttati e senza diritti, invisibili.
L’importanza dei Movimenti di lotta per la salute. Pensare di conquistare un nuovo modello di gestione della salute senza dar vita ad un soggetto collettivo che lo richieda, che si mobiliti per conseguirlo, è impensabile. Per troppo tempo questa rivendicazione non ha avuto la centralità che avrebbe dovuto avere nei movimenti, vista la quantità di implicazioni che sottende. Costruire un movimento di lotta per la salute non è un problema solo per chi lavora in questo settore. È il problema di chi lotta contro le diseguaglianze sociali, di chi ritiene inaccettabile l’esercito dei nuovi poveri che si ingrossa e che si infoltirà ancora di più dopo l’epidemia. È il dramma di chi non ha casa ma anche di chi la perderà perché ha già perso il diritto al reddito. È l’ingiustizia di chi non si cura perché non ha i soldi per farlo. È la disumanità di chi subisce la devastazione quotidiana dell’ambiente in cui vive a causa delle produzioni nocive (inceneritori, rifiuti, agenti inquinanti).
Riteniamo che oggi sia necessario aprire una ampia discussione sul modello di salute che vogliamo. Una discussione che sia in grado di dare risposte concrete alla distruzione sistematica dei diritti che ne è conseguita. Questo appello non vuol essere un tentativo di sommare debolezze con la speranza di costruire una forza, ma un invito a ragionare su come si può costruire questo movimento e su quali basi.
Riteniamo che sia possibile, ad esempio, provare a costruire questo movimento su alcune delle seguenti tematiche:

● Costruire a livello dei territori delle consulte popolari in cui ragionare sul modello di salute che vogliamo conseguire e individuarne i 6 bisogni. Ricostruire la storia di come sono stati cancellati i servizi e definire soprattutto che cosa oggi è necessario per dare una risposta adeguata alle esigenze di salute della popolazione.

● Organizzare assemblee pubbliche nelle realtà sociali e rivendicare consigli comunali aperti dove discutere piattaforme di salute territoriali

● Mobilitarsi per ottenere una Commissione di inchiesta indipendente, che faccia luce sui danni di questa epidemia e sulle responsabilità di chi non ha saputo gestire l’emergenza, soprattutto nei luoghi di lavoro.

● Nessun lavoratore deve essere obbligato per ragioni produttive a lavorare in condizioni di rischio. Pretendere che vengano individuate subito misure certe per impedire una nuova diffusione del contagio, garantendo in tutti i luoghi di lavoro i DPI e adeguate misure di sorveglianza sanitaria.

● La regolarizzazione immediata, tramite sanatoria, di tutti i lavoratori migranti (dai raccoglitori alle badanti)

● La regolarizzazione di tutti i lavoratori invisibili (dai riders alle partite IVA)

● Un contratto unico a parità di diritti per chi lavora nella sanità pubblica e privata, per tutte le figure sanitarie e dell’assistenza, includendo anche gli operatori esternalizzati e quelli che oggi operano nelle cooperative sociali. Con l’obbiettivo di ricondurre tutte queste figure al servizio pubblico.

● incompatibilità assoluta per medici e infermieri tra professione privata e pubblica, abolizione dei ticket e accesso gratuito alle cure per tutt*, reinternalizzazione dei servizi e ritorno ad una economia di scala nazionale controllata per l’acquisto di beni, farmaci e macchinari.
Il diritto al lavoro è uno dei determinanti della salute. Senza lavoro ci si ammala. Senza salario non si sopravvive. Senza diritti si muore.

 

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