Le diseguaglianze in salute: una sfida che il sindacato non può ignorare

Parlare di disuguaglianze in salute nel mondo come in Italia ormai non fa notizia. Ci siamo assuefatti culturalmente all’idea che in questa società i diritti non sono uguali per un povero e per un ricco grazie ad una eredità, ad una rendita o a una forma di sfruttamento. Così come non crea sconcerto l’idea che l’1% della popolazione mondiale possiede più del restante 99% come non produce meraviglia il fatto che nel 2016 OXFAM abbia stimato che sono 40 milioni le persone schiavizzate in ambito di lavoro, tra cui circa 4 milioni di bambini.

Nel 2017 il Prodotto interno Lordo mondiale (PIL) è cresciuto ma l’82% di questa ricchezza ha arricchito solo l’1% più ricco, mentre alla popolazione più povera non è andato nulla.

Secondo OXFAM 7 su persone su 10 vivono in un paese dove negli ultimi 30 anni le diseguaglianze sono aumentate anziché, come era lecito aspettarsi, diminuite. Ossia, alla faccia del progresso scientifico e delle conoscenze, i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sono sempre più poveri. Il numero dei miliardari è aumentato in modo consistente: ce ne sono ben 2043 (dei quali 9/10 sono uomini). Si stima che si crei un miliardario in più ogni due giorni. La loro ricchezza complessiva è aumentata di 762 miliardi di dollari nell’arco di 12 mesi: una somma che sarebbe sufficiente a far uscire dallo stato di povertà assoluta 789 milioni di persone.

Tra le disuguaglianze quella più devastante è rappresentata dal lavoro pericoloso e sottopagato della maggioranza della popolazione mondiale e in modo particolare delle donne che alimenta l’estrema ricchezza di pochi. 42 persone possiedono la stessa ricchezza dei 3,7 miliardi di meno abbienti della terra.

I quattro uomini più ricchi dell’Indonesia possiedono più dei 100 milioni di poveri, mentre negli Stati Uniti le tre persone più ricche possiedono lo stesso patrimonio della metà più povera della popolazione. La conseguenza evidente è che un cittadino medio in Sierra Leone raggiunge al massimo i 50 anni mentre in Italia arriva ad 83 dove però chi è povero vive molto meno di chi è ricco. La rivista “The Lancet” ha pubblicato uno studio da cui emerge che negli Stati Uniti tra il 1980 e il 2015 la diseguaglianza di reddito aveva corrisposto, come era lecito attendersi, ad una diseguaglianza nella longevità.

Le diseguaglianze erano da ricercare nel calo dei redditi reali registrato a partire dal 2001 tra gli americani con reddito basso e medio: l’1% più ricco vive fino a 15 anni in più rispetto all’1% più povero della popolazione. Di fatto la povertà è diventato un potente indicatore della morte. Negli Stati Uniti nelle contee più povere si vive fino ad oltre 20 anni di meno rispetto a quelle più ricche.

In Italia esiste una differenza di aspettativa di vita tra chi ha fatto solo le scuole dell’obbligo e chi è laureato pari a 4 anni per gli uomini e 2 per le donne. Stessa differenza di aspettativa di vita che esiste anche tra chi vive in una grande città, come Torino, in un quartiere povero di periferia o in un quartiere ricco.

In Italia la povertà assoluta colpisce 5 milioni e 58 mila individui: le ultime stime, che danno conferma di un fenomeno in aumento, ci raccontano di una popolazione a rischio di povertà o esclusione sociale pari al 30% del totale e in cui la fascia di età più colpita è quella dei minorenni, con una incidenza del 12,1% (1 milione 208 mila). In particolare, la povertà legata al reddito riguarda il 20,6% della popolazione (in Europa peggio di noi solo Lituania, Grecia, Romania e Bulgaria) e la grave deprivazione materiale il 12,1% della popolazione.

Di particolare attenzione è, in questo senso, il tema della povertà energetica e della incapacità, per molte famiglie, di poter riscaldare le proprie abitazioni. Ma la percentuale della popolazione che in Italia non può permettersi di riscaldare adeguatamente la propria abitazione è pari al 16,1% e quella che vive in abitazioni con problemi strutturali o di umidità sale al 21,1%.

Non stupisce davvero che in questo contesto sociale, secondo dati ISTAT, negli ultimi 12 mesi circa 5 milioni di italiani per motivi economici hanno dovuto rinunciare alle cure. Le continue revisioni al ribasso degli indici per accedere alle prestazioni sanitarie e gli aumenti del costo del ticket costringono sempre più a fare scelte diversificate e restrittive.

Il rapporto EHCI 2017 ha posizionato il SSN italiano al 20° posto su 35 paesi europei e l’Italia è il paese europeo con la più grande differenza tra Regioni di PIL pro-capite, dove la spesa nella regione più povera è solo 1/3 di quella della più ricca”.

Sebbene una serie di servizi di base siano ancora gratuiti, le spese a carico dei pazienti sono eccessivamente elevate (23% del totale, rispetto ad una media UE del 15%); il dato peggiore riguarda le cure odontoiatriche.

Nella fascia di reddito più bassa la percentuale di cittadini che segnalano bisogni sanitari non soddisfatti per motivi economici è particolarmente elevata, lasciando intravedere marcate disparità nell’accesso all’assistenza.

A quarant’anni dalla Riforma sanitaria 833/78 il profilo del SSN risulta fortemente in crisi di identità sempre più condizionato da lobby affaristiche interessate ad una sua modifica istituzionale, a partire dalla sua dimensione universalistica, considerata sempre meno compatibile con l’andamento economico.

Spinte che in realtà hanno già prodotto cambiamenti rilevanti e profondi nel funzionamento nell’articolazione di questa istituzione, che trovano alimento ciclicamente soprattutto durante i periodi di crisi economica. Così fu nella crisi del 1992 e così accade oggi in presenza degli effetti di una crisi storica che non accenna a diminuire.

La privatizzazione di ampi settori sanitari, inserita in una logica di progressivo abbandono dello Stato del suo ruolo di garante della protezione sociale collettiva, la sempre più evidente e voluta carente programmazione dei servizi, il definanziamento progressivo del SSN, la riduzione sistematica di risorse umane e tecnologiche, grazie ai tagli sul Fondo Sanitario, sta determinando un’implosione generalizzata dei servizi che si traduce in riduzione della possibilità di accesso alle cure per un numero sempre maggiore dei cittadini.

D’altronde i dati forniti da RBM salute nel recente rapporto parlano chiaro: 13 milioni di italiani, circa il 22% della popolazione, usufruiscono oggi di forme sanitarie integrative, per conto della quale sono state lo scorso anno 8,3 mln di prestazioni.

La cultura dei diritti sociali e di welfare universale è stata piegata al pensiero neoliberista con operazioni di sistematica disinformazione che hanno permesso alle assicurazioni di giustificare in primo luogo che le attuali tutele pubbliche sono di fatto definitivamente compromesse. Le stesse devono pertanto essere “sostituite” da un secondo pilastro o anche terzo rappresentato rispettivamente dai fondi sanitari e dalle assicurazioni salute, in analogia a quanto è già avvenuto nel campo della previdenza complementare. Non è un caso che molte polizze intrecciano sia l’assicurazione malattia a quella previdenziale.

La sanità integrativa è stata negli ultimi massicciamente veicolata con uno strumento potente e apparentemente privo di penalizzazioni: l’inserimento graduale nei contratti nazionali di lavoro, nei rinnovi che si sono succeduti, di quello strumento conosciuto come welfare aziendale.

I pacchetti della sanità integrativa non sono gratuiti ma rappresentano a tutti gli effetti quote di salario che vengono sottratte al lavoratore per facilitargli il “diritto a curarsi”. Pochi lavoratori sanno che in virtù della defiscalizzazione quelle quote di reddito non confluiranno neanche nel reddito pensionistico.

È ovvio che una trasformazione così profonda non sarebbe potuta avvenire senza un concorso di interessi solo apparentemente diversi e per niente contrapposti.

È il caso del sindacato, sempre più in crisi di ruolo e di identità nel conflitto capitale/lavoro (che i padroni alimentano senza tregua) che si è trasformato sempre più da sindacato che difende gli interessi dei lavoratori in sindacato gestore/cogestore dei servizi ed ha salutato la sanità integrativa come una conquista, pur sapendo che questa rappresenta invece una misura che osteggia la sopravvivenza stessa del sistema sanitario nazionale. Eppure, è stata proprio la FIOM, la componente dichiarata più a sinistra della CGIL, che ha aperto ad aumenti contrattuali erogati sotto forma di welfare aziendale (fondo METASALUTE che dovrebbe garantire tutela integrativa a un milione di lavoratori e famiglie).

I datori di lavoro offrono vari piani assicurativi mediante i quali gli iscritti avrebbero cure odontoiatriche, rimborso del ticket e accessi più veloci e facilitati agli esami e alle cure. Questo “servizio” è stato appaltato a una società assicuratrice RBM per un importo triennale di 700 milioni. Non tutti sanno però che il “dono” dei datori di lavoro sarà completamente o quasi detratto dall’imponibile dell’impresa che ha promosso progetti di welfare aziendale. In termini di benefici reali RBM avrà modo di avere i dati personali dei lavoratori, di proporre loro polizze integrative, selezionare tramite piattaforme informatiche gli accessi alle cure. Alla fine di quei 700 milioni sottratti alla raccolta fiscale, fatti i vari calcoli, ai lavoratori andrà solo il 70%.

Di fatto, tra tagli al Fondo sanitario e welfare integrativo il SSN è sempre più al collasso e “obbligato” ad incanalarsi nella scelta di subire l’azione dilagante delle assicurazioni. Non è caso che anche Aziende ospedaliere pubbliche come il Niguarda e il Gaetano Pini abbiano accettato di differenziare l’accesso alle prestazioni come già accade nel privato: SSN, con liste di attesa infinite al costo del Ticket, tariffe SMART e attività in libera professione, con liste di attesa più ridotte e costi superiori, solvenza con pagamento totale della prestazione e scelta del medico, con tempi ridottissimi ed infine buon ultimo con pacchetto assicurativo, che garantisce tempi più veloci del SSN.

Pubblico come privato dunque? Nelle regioni del Nord il rapporto pubblico/privato non è più ormai da anni quello che abbiamo conosciuto dopo la riforma sanitaria. Ma non è neanche quello dichiarato dai pionieri che si battevano per il suo riequilibrio, in nome della sussidiarietà.

Oggi il privato in situazioni come la Lombardia e il Veneto è nettamente più avanti rispetto al pubblico, non solo perché quasi tutte le eccellenze nel settore degli acuti non sono più appartenenti a quest’ultimo, ma perché in termini di valorizzazione una grossa parte delle risorse è diventata appannaggio dei grandi gruppi privati.

In una ricerca in corso di pubblicazione basata in prevalenza sull’analisi dei flussi regionali risulta che il più grosso gruppo della sanità lombarda nella valorizzazione dei ricoveri nell’anno 2017 da solo ha avuto una valorizzazione di 757 milioni di euro, pari al 14% dei del valore dei ricoveri totali. Nello stesso anno la somma della valorizzazione dei ricoveri dei 7 ospedali pubblici di Milano era pari a 744, 1 milioni.

Ha davvero ancora senso di parlare di privato integrativo al pubblico? C’è però da domandarsi se in questo contesto dovesse arrivare l’autonomia regionale targata lega quali potrebbero essere gli scenari.

Autonomia differenziata vuol dire soprattutto cessioni di poteri, finora compartecipati tra Stato e Regioni, a favore di queste ultime e in definitiva maggiori risorse finanziarie.

L’incremento dell’autonomia regionale viene letto da chi lo propone come possibilità di rimuovere i vincoli di spesa previsti da normative statali, soprattutto sulle politiche di gestione del personale e come determinazione del numero di posti per i corsi di formazione per i medici di medicina generale e per le scuole di specializzazione. Ma soprattutto alle Regioni viene attribuita una maggiore autonomia nell’espletamento delle funzioni attinenti al sistema tariffario, di rimborso, di remunerazione e di compartecipazione

Dopo la balcanizzazione del SSN operata nel 2001 la sanità si è ulteriormente differenziata. Se guardiamo le risorse disponibili per regione appare evidente che tra la spesa sanitaria totale della Valle d’Aosta e della Calabria, fatto 100 per la prima, la seconda scende a 66.

La spesa privata è ovviamente proporzionale al reddito pro-capite. In Lombardia quest’ultimo è doppio di quello calabrese. In Lombardia si spendono quasi 900 euro privatamente e un terzo di questi è coperto da assicurazioni. Dal 2011 la distribuzione del fondo sanitario nazionale avviene con criteri demografici grossolani: il criterio base è l’età. In Sistemi Sanitari analoghi al nostro (finanziati cioè dal fisco e distribuiti centralmente) i criteri sono invece quelli che scaturiscono dal quadro epidemiologico e dai determinanti sociali ed economici.

Riprendendo un concetto già esposto si comprende ora perché l’attuale distribuzione del Fonda sanitario sia assurda. La correlazione tra status sociale ed economico e condizioni di salute fisica e mentale è emblematica in questo senso, soprattutto al Sud dove la differenza in senso negativo degli indicatori regionali della mortalità è evidente ed il loro trend è preoccupante.

Il definanziamento del Fondo Sanitario Regionale ha prodotto un impatto ancor più negativo nelle Regioni che avevano accumulato dei deficit negli anni precedenti. La situazione dell’assistenza sanitaria nelle regioni del Centro Sud già deficitaria, prima del 2008, ha avuto processi degenerativi in questi ultimi anni per le politiche di austerità e di rientro forzato dei deficit pregressi. La cura forzosa ad una presunta inefficienza rispetto alle Regioni virtuose, ha condotto a un definanziamento strutturale differenziato. L’autonomia o la concorrenza tra Regioni di certo non ha migliorato o indotto il livellamento delle differenze, contrariamente a chi affermava che questi meccanismi mutuati dal mercato avrebbero aumentato l’efficienza.

Secondo questa logica, figlia di un pensatoio comune, la concorrenza tra Regioni, quella tra ospedali pubblici e privati, doveva automaticamente determinare la distribuzione ottimale delle risorse e razionalizzare i livelli di assistenza.

Con questa ideologia da quasi mercato la solidarietà interregionale si è di fatto ridotta e annullata, sostituita da politiche di “piccolo sovranismo”. In questo quadro anche la programmazione a livello nazionale da parte del Ministero Sanità si è ristretta ad ambiti settoriali o ad obiettivi definiti genericamente.

Il secessionismo sanitario di fatto è però nei fatti già avvenuto. La privatizzazione in questi anni è proceduta velocemente aumentando ancora di più le differenze di accesso alle cure per coloro che hanno meno reddito o una diversa residenza. Con riferimento ai dati del 2016, la spesa pubblica come quota pro-capite del fondo sanitario nazionale, per la cosiddetta parte indivisa vede un range da 1772 euro della Campania a 2178 euro della Liguria con una differenza di circa 400 euro. La media nazionale è di 1955 euro.

Il regionalismo differenziato quali poteri darà alle Regioni che vogliono la secessione sanitaria? Quello che forse attrae maggiormente è proprio la possibilità d’istituire fondi assicurativi regionali o meglio di favorire la costituzione di assicurazioni obbligatorie integrative. Il quesito è se erogherà contributi per l’acquisto delle polizze assicurative o se invece si passerà all’adesione a sedicenti fondi costituiti … ad hoc da queste ultime.

L’approdo verso un sistema non più universalista è già visibile in paesi come Olanda, Svizzera e Francia. Nell’autonomia differenziata sarà la Regione a obbligare il cittadino a dotarsi a proprie spese di un’assicurazione complementare. Chi non potrà avrà un livello inferiore di cure garantito da un contributo monetario.

Questa è la proposta che i big assicurativi fanno già in modo esplicito e trova sponda in ampi settori economici e sindacali. Oltre agli esempi stranieri si può citare anche la copertura integrativa organizzata dalla Provincia autonoma di Trento, che è finanziata con quote capitarie maggiori dallo Stato e dove si riscontra la spesa privata più alta.

I fondi assicurativi territoriali e il welfare aziendale vogliono essere le facce del nuovo welfare personalizzato in base alla residenza o allo status lavorativo. Il welfare legato alla cittadinanza viene così differenziato e ridotto ai livelli minimi se non annullato. Il fondo assicurativo della non autosufficienza viene sponsorizzato da diversi sindacati e trova eco anche in settori della sinistra istituzionale.

La politica non si è mai occupata seriamente di questo problema e la tutela pubblica copre solo parzialmente i costi dell’assistenza domiciliare o residenziale. Oneri che si continua a scaricare sulla famiglia sempre più debole economicamente e numericamente. Viene meno l’altro aspetto della finalità del diritto alle cure ossia evitare che la malattia o la fragilità determini una depauperazione economica individuale o della famiglia. Ecco che allora in carenza di un intervento pubblico nasce un mercato della nuda proprietà dove l’anziano, che per autofinanziarsi le cure in alcuni casi è costretto a vendere la propria casa. Oppure a devolvere l’assegno di accompagnamento.

Questo non basta a dire no al fondo per la non autosufficienza ma non autorizza neppure a pensare che la copertura assicurativa possa risolvere da sola gli attuali bisogni assistenziali. Già ora il mercato assicurativo esclude quasi sempre la popolazione ultrasettantenne. I fondi aziendali a volte assistono i pensionati ma chiedendo loro maggiori contributi. Solo le mutue di soccorso non hanno limiti d’età.

Le polizze LTC (Long Term Care) sono convenienti solo se attivate in età giovanile o estremamente onerose se ottenute in età oltre i 60 anni. Alcune assicurazioni propongono il reddito di salute ovvero un voucher per acquistare una copertura assicurativa complementare. È ovvio che i costi sarebbero a carico del cittadino oppure dello Stato attraverso le agevolazioni fiscali. Per le assicurazioni è importante che sia istituzionalizzata la loro funzione d’intermediazione e di controllo dei flussi finanziari. Già ora, welfare aziendale e sanità “integrativa” sono sussidiate, indirettamente, da quello che viene definito welfare fiscale, ovvero l’insieme delle detrazioni e deduzioni che determinano una minore raccolta fiscale (valutata in circa 7-8 miliardi). A dimostrazione che l’equità e la copertura universale degli eventi patologici e delle relative perdite economiche viene di fatto sgretolata nella creazione di nicchie di privilegio e di tutela.

Il quadro appena descritto per quanto terribile non deve produrre rassegnazione. Oggi più che mai, bisogna avere le idee chiare contro cosa bisogna lottare, rendersi conto che le ingiustizie che vediamo tutti i giorni nei nostri luoghi di lavoro hanno una origine comune nei processi di mercificazione della salute.

Processi che includono anche forme di sfruttamento selvaggio dei lavoratori soprattutto nei settori dell’assistenza. Per opporsi non bastano le forme di resistenza e di ribellione individuale. Occorre dispiegare una rete di alleanze dove trovino spazio anche coloro che questa sanità la subiscono. Non è più tempo di inseguire la difesa dei piccoli interessi di lavoratori che si sentono più tutelati di altri: è il tempo di comprendere se si accetta di essere passivamente complici di chi sta distruggendo lo strumento base della solidarietà o se esiste la possibilità di opporsi in modo intelligente ma determinato.

La KOS CARE lascia a casa 4 dipendenti

L’ultima vendetta: KOS CARE “lascia a casa” 4 lavoratori

Alla San Faustino siamo arrivati ad un epilogo annunciato, forse anche scontato. Abbiamo sempre pensato che KOS CARE avesse scelto di non garantire il passaggio di appalto diretto dei lavoratori della Coop. Archè perché voleva scegliersi i lavoratori a suo piacimento e mandare a casa quelli che non riteneva più utili alla sua attività. Ora ne abbiamo la certezza

Lo ha fatto con costanza da febbraio ad oggi, realizzando uno spezzatino sempre più raffinato di quella che è stata fino ad oggi la squadra di operatori che per conto della Coop. Archè ha garantito per oltre un decennio l’attività assistenziale nella RSA S. Faustino.

I lavoratori a cui è stato impedito il diritto di proseguire il rapporto di lavoro con la KOS CARE sono stati prima costretti al licenziamento di massa prima dalla Coop. Archè e poi alle forche caudine di una riassunzione in KOS CARE che per alcuni si è rivelata una gigantesca trappola.

KOS CARE ha imposto ai lavoratori che venivano riassunti di cominciare la vita lavorativa da capo, DA ZERO, come se non avessero mai lavorato, fino al ricatto incredibile di una prova generalizzata di svariati mesi anche per chi lavorava in quella struttura da quasi venti anni.

KOS ha poi iniziato a dividere i lavoratori in gruppi secondo la logica antica e crudele del DIVIDE ET IMPERA. Un gruppo di lavoratori è stato assunto con contratto a tempo indeterminato ed un altro a tempo determinato, un altro gruppo invece non è stato invece proprio assunto.

Ovviamente questo ci ha costretto a 3 differenti vertenze legali che come è facile intuire hanno prodotto e stanno producendo risultati diversi.

Per i lavoratori a tempo indeterminato la KOS CARE ha scelto di conciliare, di fatto riconoscendo a questo gruppo di dipendenti condizioni contrattuali in continuità a quelle avute in precedenza con la Coop Archè.

Gli altri dipendenti, SENZA ALCUNA GIUSTIFICAZIONE E CON UNA PALESE DISCRIMINAZIONE DI DIRITTI, sono stati trasformati a tempo determinato. La trappola del contratto a termine è servita per lasciare a casa 6 di questi dipendenti, ai quali “semplicemente” non è stato prorogato il contratto. Un modo scientifico da parte di KOS CARE per non sporcarsi le mani licenziandoli.

Ad altri lavoratori la ditta ha invece offerto la possibilità di andarsene, monetizzando le dimissioni, e alcuni hanno accettato spaventati sia dal rischio di essere lasciati senza lavoro e senza indennizzo ma soprattutto dalla modalità con cui KOS CARE li sta costringendo lavorare.

Il COBAS si è trovato ad essere l’unico sindacato che sta sostenendo il peso di questo scontro infernale contro KOS CARE che pretende di asfaltare i diritti dei lavoratori per non creare nelle numerose RSA che il Gruppo KOS gestisce un precedente che potrebbe inficiare i suoi piani aziendali.

KOS CARE vuole il diritto di gestirsi le sue RSA in assoluta libertà: vuole comandare e imporre le sue regole senza il sindacato, senza dare spazio ai lavoratori di organizzarsi per difendere i loro diritti e decidere da chi farsi rappresentare.

KOS CARE non vuole riconoscere la rappresentanza dei COBAS, l’unico sindacato che continua a tenergli testa e a non arrendersi davanti alla sua arroganza, che continuerà a sostenere i lavoratori nelle vertenze legali necessarie a tutelare ad ottenere il riconoscimento del diritto della continuità di rapporto di lavoro tra Coop. Archè e KOS CARE. Niente è più emblematico di quello che successo ai lavoratori dell’ex appalto Immensa, abbandonati a se stessi dopo tante promesse.

La nostra battaglia non finisce però col riconoscimento di questo diritto, ma punta a conseguire condizioni di lavoro più dignitose di quelle che oggi vengono imposte ai lavoratori della S. Faustino.

Carichi di lavoro che sono aumentati a dismisura, personale che è stato ridotto ai piani, qualità dell’assistenza che è stata inequivocabilmente ridotta, senza che il sindacato possa interloquire.

NON SIAMO DISPONIBILI A SUBIRE IN SILENZIO queste condizioni di lavoro!

Avevamo pensato che almeno davanti a un Giudice del Lavoro ci fosse da parte di questa Azienda un atteggiamento più rispettoso anche delle forme di conciliazione. Ci siamo resi conto che non è così e la mancata proroga dei rapporti di lavoro lo testimonia.

In questa situazione non ci resta che DICHIARARE L’IMMEDIATO STATO DI AGITAZIONE DEL PERSONALE DELLA RSA S. FAUSTINO.

                                                                     COBAS RSA S. FAUSTINO